La Rosa di Creta

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» Sanji
view post Posted on 31/1/2009, 19:59




I giardini di Piazza Omonia sono diventati la mia seconda casa.
Quando il tempo lo permette, e ad Atene questo succede molto di frequente, quei giardini sono la meta delle mie lente passeggiate.

Attraverso Viale 28 Octovriou, entro tra il verde del piccolo parco, e mi dirigo sempre verso la stessa panchina, la più ombreggiata fra le tante, quasi sempre miracolosamente libera, come se aspettasse il mio arrivo.
E, seduto su quella panchina, guardo i bambini giocare con la palla e sfrecciare con le loro biciclette multicolori, guardo le giovani mamme controllare i bambini che giocano, osservo i ragazzi più audaci sbirciare le mamme che vigilano sui piccoli felici e chiassosi.
E' questo il mio mondo ormai, il mondo di una persona anziana che alla vita ha dato tanto, e che dalla vita tanto ha ricevuto.
E anche oggi sono qui.
Come ieri e come, forse, anche domani.
Alla mia età è meglio non fare troppi progetti.

Questa panchina, dalla vernice scrostata e dai sostegni arrugginiti, ha su di me un effetto del tutto particolare: rappresenta un pò il lettino dello psicanalista e un pò la macchina dei sogni, una via di mezzo fra uno strumento di tortura e una giostra incantata, quel confine così sottile e labile fra passato e presente.
I giardini di Piazza Omonia sono il luogo dove la mia mente può viaggiare libera e leggera nei ricordi, volare senza peso e senza fatica sull'orizzonte del mio passato, per poi posarsi delicatamente dove maggiormente preferisce.
E anche oggi, come sempre più spesso mi accade, dopo qualche minuto trascorso ad osservare la vita che pulsa attorno a me, finisco per assopirmi.
E la mia mente va, tra il sonno e la veglia, al passato, a quel passato che più è lontano nel tempo e più mi appare attuale, reale, vivido, intenso.
Ma è cosa risaputa.
I vecchi dimenticano le cose di pochi minuti prima, ma ricordano sempre tutto di quello successo tanti anni fa, probabilmente in un’altra vita.
Ed io non ho mai capito, e credo che mai capirò, se questa condizione sia una dolce assoluzione o una terribile condanna.
Perché il ricordo è un’arma a doppio taglio: in alcuni casi gradevole e commovente, ma più spesso amaro e doloroso.
Con gli occhi chiusi, in un ultimo barlume di coscienza, mi rassegno a rivivere in sogno quei periodi della mia vita che tanto ho amato, e che ora tanto mi devastano l’anima.
Assoluzione o condanna.
Difficile a dirsi.

Era il nostro primo anniversario di nozze.
L'anno precedente, tra le spese per il matrimonio, l'affitto della nuova casa e quel minimo d'arredo necessario a viverla, mia moglie ed io eravamo rimasti senza una dracma.
Le nostre famiglie ci avevano aiutato quel tanto che era nelle loro possibilità, e cioè molto poco.
A quei tempi la vita era dura per tutti, nessuno escluso.
Dopo il matrimonio c’eravamo concessi solo pochi giorni di vacanza a Corinto, rinviando a tempi migliori il viaggio di nozze.
Avevamo preso, perciò, una vecchia corriera scassata e ansimante, felici ed eccitati come solo due sposi di ventiquattro anni potevano esserlo: ed erano stati giorni meravigliosi, di sesso e d’amore, di risate e di bagni in mare, di progetti e di promesse, di desideri e povertà.
Erano state ore di inebriante passione, in cui sentivamo che il centro del mondo eravamo noi, e che era il resto del creato a girarci attorno.
Ci sentivamo come sospesi nel vuoto: i nostri passati che si erano uniti in quel presente che sarebbe divenuto un unico futuro.
E mai, nel resto della mia vita, ho toccato con mano la felicità come allora.

Quella misera parvenza di viaggio di nozze, così povero di mezzi ma così ricco d’amore, passò troppo rapidamente, riportandoci ben presto ad Atene e ai nostri rispettivi lavori.
Ma l'anno successivo, per il nostro primo anniversario di matrimonio, essendo riusciti a risparmiare qualcosa, a prezzo di lunghe ore di straordinario nell'ufficio contabile dove ero impiegato, e di turni aggiuntivi come cameriera nel ristorante dove Marika lavorava, decidemmo di regalarci cinque giorni di vacanza a Creta: sarebbe stato il nostro vero viaggio di nozze, quello al quale dodici mesi prima avevamo dovuto rinunciare.

Arrivammo ad Iraklio nel tardo pomeriggio, a bordo di un decrepito traghetto partito dal Pireo quasi venti ore prima.
Avevamo prenotato una camera in una modesta pensione di Pelaghia, un piccolo borgo sul mare ad una decina di chilometri da Iraklio.
Un antiquato autobus, malandato e affollato, ci condusse dal porto alla nostra meta.
Pelaghia era un villaggio di casette bianche, dalle imposte e dalle porte dipinte di celeste, stretto tra il mare e le colline, dalle stradine anguste e tortuose; la nostra pensione si affacciava sul mare, e dalla finestra della nostra camera lo sguardo spaziava verso l'infinito azzurro dell’acqua e del cielo.
Dopo esserci rinfrescati e cambiati d'abito, Marika ed io uscimmo per le strade a passeggiare, felici ed innamorati come non mai.
Camminammo a lungo per strade e stradine, vicoli e piazzette, fermandoci spesso ad ammirare i luoghi più suggestivi, i panorami più incantevoli, gli angoli più nascosti e caratteristici del villaggio, le piccole e buie chiese ortodosse, avvolte perennemente in un mistico e pungente profumo d'incenso.
Il vento scompigliava allegramente i lunghi capelli neri di Marika, facendola apparire ai miei occhi ancora più bella di come era, accentuandole lo splendore del viso, la luminosità dei suoi occhi e l'intensità del suo sorriso.
E camminando abbracciati, i miei sensi pieni di lei, ancora non mi capacitavo come fosse potuto accadere che Marika diventasse mia moglie.

I piccoli negozi stretti gli uni agli altri, e le semplici botteghe poco illuminate e decisamente caotiche, vendevano artigianato locale e cartoline, ruvidi teli di spugna e sandali da mare, spezie dagli intensi profumi e pesce dal pungente odore: l’intero villaggio era un vero e proprio bazar, senza pretese e senza lussi, fatto di povere cose e di tanti colori e altrettanti odori, ma dove potevi trovare letteralmente di tutto.
Ad un angolo di strada una donna anziana e senza denti, avvolta nel classico nero dei vestiti popolari greci, vendeva fiori e frutta, in un incredibile e profumatissimo miscuglio cromatico.
Comprai a Marika una rosa rossa, bella e profumata, dal gambo lungo e liscio, le spine accuratamente rimosse: avrei voluto comprarle il mondo intero quel giorno, regalarle le cose più preziose che ci fossero sulla terra, ricoprirla di tutto quello che il mio cuore innamorato mi spingeva a donarle.
Ma il mondo non era alla mia portata.
Potevo solo amarla e stringerla a me.
Una rosa rossa e mille abbracci.
Solo questo potevo allora regalare a mia moglie.
E Marika sapendo che, se solo avessi potuto, io avrei fatto pazzie per lei, accettò quella semplice rosa rossa come fosse un gioiello dal valore inestimabile.

Cenammo in una taverna del piccolo porto del villaggio, su tavoli scheggiati e consunti, e sedie antiche e traballanti, e con il profumo di pesce arrostito nell'aria.
Ci tenemmo per mano quasi tutta la serata, gustando dolmades e moussaka, gamberetti di Symi e polipo alla brace, vino bianco di Creta e ouzo.
Ballammo il sirtaki nella piccola piazzetta antistante la taverna, con i pescatori del villaggio che celebravano, suonando il bouzuki, la fine di un altro giorno e l'inizio della battuta di pesca notturna.
Ci si divertiva con nulla, a quei tempi.
Di tanto in tanto Marika, portandosi la rosa al naso, ne annusava il profumo, ed i suoi occhi s’illuminavano ogni volta di felicità e contentezza.
Fu una serata lunga e meravigliosa, che ci riportò alla nostra pensione solo a notte fonda.

La sua lingua scorreva lungo l'asta del mio pene, soffermandosi sulla punta con abili movimenti, come lei sapeva a me piacere particolarmente.
In piedi, la vedevo in ginocchio davanti a me: con una mano mi stringeva delicatamente i testicoli, mentre con l'altra si pizzicava voluttuosamente i capezzoli eretti.
Vista la serata molto calda, avevamo lasciato i vetri della finestra aperti, e la luce della luna rischiarava debolmente la camera, consentendoci, però, di vedere i nostri corpi, giovani, nudi ed eccitati, ed anzi esaltando magicamente lo splendore e la lucentezza dell'ambrata pelle di Marika.
Nella modesta stanza della pensione di Pelaghia, forse a causa del troppo vino bevuto durante la cena, o forse per la convinzione che quello fosse il nostro vero viaggio di nozze, si era andata creando un’incantata atmosfera di erotismo e di sensualità, come mai era accaduto in quel nostro primo anno di matrimonio.

Alternando la lingua e la bocca, Marika mi portò più volte vicino all'orgasmo, fermandosi però sempre in tempo, in una tortura implacabile e sconvolgente, ma deliziosa e sublime.
Poi, con sguardo malizioso, mia moglie mi fece sdraiare sul letto e mi montò sopra e, afferrandomi il pene con la mano, lo guidò dentro di lei; restammo un attimo immobili, uniti nel corpo e nell'anima, fusi uno nell'altra, con il rumore delle onde del mare ad avvolgerci in un delicato abbraccio.

Marika si sollevava quasi fino a sfilarsi il pene dal sesso, e poi, dopo un istante in cui restava perfettamente immobile, ridiscendeva con rapidità, impalandosi completamente: erano movimenti così erotici e suadenti, quasi ipnotici, e che mi arrivavano dritti al cervello come fossero un’improvvisa scarica elettrica.
La testa rovesciata all'indietro, mia moglie si accarezzava i seni con le mani e, mentre io la tenevo per le natiche, guidando il ritmo della penetrazione, lei ansimava e gemeva come poche volte l'avevo sentita fare in passato.
Ero ormai prossimo a venire quando Marika accelerò il movimento di colpo, e, mettendosi un dito in bocca, eccitata al massimo, iniziò a godere. Mi fu sufficiente vederla in quello stato, letteralmente impazzita per il piacere che dilagava in lei, per schizzare tutto il mio seme nel suo corpo, in un orgasmo travolgente e liberatorio.

Facemmo l'amore teneramente per ore, non saziandoci mai l'uno dell'altra.
Esplorai lo splendido corpo di mia moglie come fosse la prima volta, carezzandola e baciandola con estrema delicatezza, ma spinto da una passione irrefrenabile.
Ci amammo con i corpi e con le menti, in quella piccola stanza di Pelaghia, stanza che ci sembrava però essere un castello incantato, il castello di una favola scritta quella sera e solo per noi due.

Dopo l'amore restammo sdraiati a lungo a parlare, carezzandoci vicendevolmente.
E quando le carezze iniziarono di nuovo a farsi più intime e piene di desiderio, senza una ragione precisa, ma spinto da un desiderio improvviso, dal comodino presi la rosa rossa che avevo regalato a Marika quella sera stessa, e iniziai a farla scorrere delicatamente sul suo seno, indugiando sui capezzoli, nuovamente duri ed eretti.
Lei rimase sorpresa solo per un attimo di quella mia insolita iniziativa, ma poi chiuse gli occhi e si abbandonò al gioco.
Lentamente le feci scivolare il fiore fra i seni e sul ventre piatto, poi risalii fino al collo e alle orecchie, sentendola rabbrividire di piacere; quindi la rosa scese nuovamente lungo il suo corpo, teso ed eccitato da erotiche e sconosciute percezioni, ed iniziò a carezzarle le gambe e l'interno delle cosce.
Riuscivo solo ad immaginare le sensazioni incredibili che Marika doveva provare in quei momenti, travolta da quel lieve tocco di petali che nessuna mano e nessuna bocca potevano eguagliare.
Sospirando estasiata per quel morbido ed erotico massaggio, mia moglie aprì completamente le gambe.
Mi mostrò il suo sesso totalmente aperto e incredibilmente bagnato e la rosa risalì lungo le sue gambe fino ad iniziare un’impalpabile danza sulle labbra del suo sesso invitante.
Ora Marika aveva aperto gli occhi e guardava come ipnotizzata il movimento del fiore: i suoi sospiri si stavano trasformando in ansiti, i suoi mugolii in gemiti di piacere sempre più carichi di aspettative.
Quando con il gambo presi a tormentarle il clitoride, Marika mi guardò e, in un sussurro, mi disse: - Ti prego amore, masturbati… -
In quella situazione così coinvolgente ed erotica, la sua richiesta mi apparve del tutto naturale
E mentre i suoi occhi erano fissi sulla mia mano che con sapienza portava il pene verso l'orgasmo, e mentre i petali della rosa rossa le sfioravano il ventre, e mentre il gambo volteggiava in una danza sempre più sfrenata sul suo clitoride, venimmo in un orgasmo, fisico e mentale, mai provato fino ad allora...

La panchina ora è al sole.
Fa molto caldo adesso.
Mi scuoto dal mio torpore e per qualche secondo non realizzo dove io sia.
Per un attimo quasi mi convinco di essere ancora a Pelaghia, in quella camera dove ho amato mia moglie con una rosa rossa.
Poi rivedo i bambini che giocano, e le mamme che chiacchierano tra loro e sorvegliano i loro piccoli, e anche con la mente torno a sedermi ai giardini di Piazza Omonia, alla mia panchina, al presente.

Sono quattro anni, ormai, che Marika non c'è più.
Il tempo e la malattia se la sono portata via.
Mi ha lasciato qui, con i miei ricordi.

Fino all'anno passato andavo a trovarla anche due volte alla settimana: arrivavo con l'autobus di fronte al cimitero, compravo una rosa rossa dal banchetto vicino all'ingresso e, camminando per i viali curati e silenziosi, giungevo alla sua tomba.
Di fronte a lei, di fronte all'amore di una vita, controllavo sempre scrupolosamente che il gambo del fiore non avesse mai spine, che fosse liscio come il gambo di quella rosa rossa di sessanta anni prima.
La rosa di Creta.
La rosa del nostro amore.
Quindi appoggiavo il fiore sulla lapide e restavo lì, avvolto dal suo ricordo.

Adesso la vado a trovare più raramente: non ho più le forze necessarie per arrivare da solo fino al cimitero.
Qualche volta uno dei nostri tre figli mi ci accompagna, ed allora il rito della rosa si ripete.

So per certo che Marika non è arrabbiata con me per le poche rose che da un pò di tempo riceve; dovunque mia moglie ora si trovi, sa che mi sto avvicinando sempre più a lei, giorno dopo giorno, lentamente, a piccoli ma inesorabili passi.
E sono sicuro che anche per lei la vera ed unica rosa rossa resti quella di Creta, la rosa di quella notte del nostro primo anniversario.
E sono anche convinto che Marika sappia che le spine di tutte le rose che le ho portato in questi anni sono qui, conficcate dolorosamente nel mio vecchio e traballante cuore.

Un bambino sfreccia davanti a me in bicicletta, quasi sfiorandomi e facendomi trasalire.
Lo osservo pedalare, felice e gioioso, un piccolo missile che corre lungo il vialetto.
Se questa panchina mezza sverniciata è il mio presente, io, con i miei ricordi, sono il passato.
E questi bambini che giocano spensierati sono il nostro futuro.
Ed è meraviglioso che sia così.

Appoggiandomi al bastone mi alzo dalla panchina e, dopo un attimo di incertezza, non appena le gambe malferme me lo permettono, mi avvio lentamente verso casa.

FINE

P.S.

Un giorno di alcuni anni fa, mentre passeggiavo al Pireo, ingannando l’attesa che giungesse l’ora della partenza del traghetto serale per Rodi, incontrai un uomo molto anziano, seduto su una panchina, all’ombra di un alberello stentato e rachitico.
Non essendoci altri posti liberi dove riposare un attimo, mi sedetti accanto a lui.
Non so come, ma attaccammo a chiacchierare.
E, come tutte le persone di una certa età, lui prese a raccontarmi della sua vita, delle difficoltà degli anni giovanili, e di sua moglie, morta qualche anno prima.
Quello che mi colpì in modo particolare di quel vecchio fu il continuo parlare della moglie, come se lei fosse ancora viva, parte imprescindibile della sua lunga esistenza; arrivò anche a mostrarmi una sua foto, che teneva gelosamente conservata nel consunto portafoglio.
Vidi così una signora esile, piccolina, già avanti negli anni, fotografata in un giardino pieno di rose rosse: le rose, mi spiegò il vecchio, erano state da sempre la grande passione della sua defunta moglie.

Ad un tratto, un uomo, all’incirca della mia età, si materializzò davanti a noi: era uno dei figli del vecchio che, sapendo dove il padre si trovasse, era passato a prenderlo per riportarlo a casa.
Parlai qualche minuto anche con lui, poi strinsi la mano ad entrambi, li salutai e mi avviai verso il mio traghetto.

Due anni dopo, a Rodi, mentre prendevo un caffè in un bar della città vecchia, notai un uomo che mi fissava con insistenza.
A dire il vero anche la sua fisionomia non mi giungeva nuova, ma non riuscivo assolutamente a collocarlo in alcun contesto.
Fu lui, invece, a ricordare dove ci fossimo già incontrati.
Si avvicinò e mi disse di essere il figlio di quell’uomo che, un paio d’anni prima, al Pireo…
Una lampadina mi si accese nella mente, e ricordai immediatamente quel pomeriggio sulla panchina del porto.

Il figlio era in vacanza a Rodi per una settimana, con la famiglia, ed era chiaramente sorpreso per la casualità di quel nostro secondo incontro.
Gli chiesi subito del padre, pentendomene un attimo dopo averlo fatto.
Lui, con occhi colmi di tristezza, mi disse che il padre era morto otto mesi prima: si era spento di notte, nel suo letto, e che purtroppo lui e le sue due sorelle si aspettavano da tempo che questo accadesse, perché il vecchio genitore, una volta rimasto vedovo, non si era più ripreso, e la mancanza della moglie gli aveva tolto la voglia di continuare a vivere.
Gli feci le mie condoglianze, sinceramente dispiaciuto della notizia,

Questo racconto, in larghissima parte opera di fantasia, ma comunque ispirato all’episodio di cui sopra, vuole essere un indegno omaggio a due persone che non ci sono più, e ad un amore lungo sessant’anni e che neppure la morte è riuscito a scalfire.
 
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